Inedito ritratto psicologico del grande campione americano firmato da Jacopo Bertone

Parlare di devianza in un’epoca in cui lo stesso anticonformismo sembra essere diventato conformista, può sembrare desueto, ma ciò non deve distoglierci da uno dei più interessanti fenomeni della psicologia sociale, che durante la seconda metà del secolo scorso ha avuto un forte sviluppo anche nel mondo dello sport, incarnandosi alla perfezione in uno degli uomini più controversi, talentuosi e genuinamente antipatici che abbiano mai messo piede su un campo da tennis: John McEnroe.

mc enroe

Ogni società ha per definizione un sistema di regole o norme la cui trasgressione suscita ira o disapprovazione, la devianza consiste proprio nelle azioni che il singolo individuo compie per uscire da questi schemi prestabiliti: alla luce di questa definizione fornitaci dallo studioso Cohen, è lecito chiedersi se è mai esistita un’immagine più deviante di quella di un ragazzino con la testa piena di riccioli che impreca, rompe racchette e insulta il pubblico dello stadio centrale di Wimbledon, tempio di uno sport rinomato come il tennis, a pochi metri dagli occhi stupefatti della famiglia reale britannica.

Quel ragazzino è John McEnroe, newyorkese classe ’59, il più anziano dei 3 irriducibili figli di John sr. e Katherine, tutti cresciuti facendo a pugni per un posto a sedere sulla metropolitana. Fin dalla più tenera età è chiaro a tutti che il piccolo Mac non è un bambino come gli altri, non tanto per la celeberrima antipatia (insospettabile eredità della mamma) quanto più per gli ottimi risultati scolastici e una “sinistra” predisposizione per ogni tipo di sport, dal calcio al basket, passando ovviamente per il tennis. Va da sè, è un mancino, cresce e si afferma in funzione di dimostrarsi diverso dal prossimo, sempre in corsia di sorpasso, nel timore che ci sia qualcun altro nel mondo con una voglia di affermarsi maggiore della sua.

Presto si rende conto che il suo futuro sarà sui campi del circuito ATP, ma non prima di aver pellegrinato per un numero smodato di centri sportivi dal quale veniva puntualmente sbattuto fuori per divergenze “tecniche” con i direttori del circolo. Tuttavia non bisogna fare l’errore di considerare McEnroe come un semplice urlatore o un giocatore sopravvalutato, trattasi infatti di un autentico genio tennistico, capace di introdurre diverse varianti a molti dei dogmi storici di questo sport, grazie all’apertura breve dei colpi, al gioco di gambe, a quel servizio dalla traiettoria assassina e ovviamente ai suoi leggendari ricami sotto rete.

Il tennis, novello circolo filosofico, è stato storicamente attraversato da diverse “correnti di pensiero” tecnico/tattico, ognuna con i suoi diversi esponenti; durante gli anni ’70 si può dire che il suo simbolo era Bjorn Borg, svedese con occhi freddi come il  ghiaccio e dotato di uno strabordante talento. Autentico idolo delle ragazzine di tutto il mondo, lo svedese si godeva senza troppe remore i frutti del suo successo, ma in campo si dimostrava sempre correttissimo, rispettoso delle regole scritte e non scritte del gioco, che di fatto dominò per quasi una decade, divenendo l’immagine di un ambiente storicamente elitario e seguito da un certo tipo di pubblico, il quale pretendeva determinati comportamenti da giocatori e organizzatori: si trattava quindi di un gruppo relativamente ristretto, con una forte pressione interna e una spiccata tendenza ad epurare coloro non ritenuti all’altezza sia dal punto di vista sportivo sia da quello caratteriale. Come probabilmente avrete intuito, l’arrivo del nostro cambiò repentinamente le carte in tavola.       

Partendo addirittura da alcuni studi sugli schiavi afroamericani, Samuel Cartwright riuscì ad individuare 4 diversi tipi di devianti: i solitari (timorosi del prossimo e molto passivi), i delinquenti (in aperta opposizione al sistema, ma anch’essi in modo passivo), gli imperturbabili (quasi completamente insensibili e con forti limiti percettivi) e infine i militanti. Mac appartiene di diritto a quest’ultima categoria, per via di quella smisurata fiducia in sè stesso e dell’assai pronunciata riluttanza nei confronti del suo gruppo (nel suo caso, il circuito ATP) alle cui sollecitazione ha ferocemente resistito e che ha, culturalmente parlando, rivoltato come un calzino. Le immortali imprecazioni nei confronti dei giudici, le provocazioni agli avversari e perfino qualche sputo verso il pubblico fecero di McEnroe il “villain” della situazione, ma questo rappresentò un grosso vantaggio per lui: la gente si interessava sempre di più al movimento, gli incassi salivano alle stelle e il tennis stava finalmente diventando uno sport di massa, tutto questo perchè l’americano espose per la prima volta qualcosa di diverso su un campo da tennis, prima di allora frequentato solamente da ricchi damerini, almeno secondo l’opinione comune.

Ecco allora che la devianza, identificata inizialmente come una terribile minaccia, diventa invece estremamente funzionale al bene del gruppo, in questo caso dal punto di vista finanziario ed “estetico”, poichè ha unto gli ingranaggi di quella meravigliosa macchina che è il tennis rendendola più attraente e performante che mai.

Dopo aver dominato a livello juniores, John, neanche ventenne, chiese il permesso alla sua federazione di sostenere le qualificazioni al tabellone principale di Wimbledon, era il 1977. La storia ha dell’incredibile, se si pensa che McEnroe, di fatto completamente al verde, ottenne il via libera, anche se gli venne affidato un misero budget di 500$ con il quale avrebbe dovuto coprire le spese di volo, l’albergo e la manutenzione delle sue racchette. Egli arrivò a Londra con qualche giorno di anticipo rispetto all’inizio delle partite, vivendo quel periodo di transizione in un ostello, nutrendosi di quello che poteva permettersi e preparandosi fisicamente al torneo dentro la sua rustica stanza; chiunque si sarebbe presentato in campo debilitato, quasi abbattuto per via di quella situazione, ma non Mac: da quella stanza uscì un giocatore ipermotivato e voglioso di dimostrarsi all’altezza della situazione, nonostante le difficoltà affrontate fin dal principio di quell’avventura.

Nelle settimane successive il ragazzino mise in mostra un tennis sontuoso, al quale i professionisti non erano per nulla preparati e che colse in contropiede anche gli stessi organizzatori, indecisi sul come comportarsi con quel rachitico e decisamente scortese Yankee. Il percorso di John dovette concludersi in semifinale davanti a un mostro sacro come Jimmy Connors, anche se ormai era chiaro a tutti che un nuovo campione stava arrivando, pronto per disputarsi il posto di numero uno. Da lì in poi la carriera dell’americano si impennò, portandolo nel giro di 2 anni ad assicurarsi il primo dei suoi 7 titoli del Grande Slam, ai quali vanno aggiunte 4 storiche Coppe Davis e decine di altri tornei vinti, in parte in singolo, ma soprattutto in doppio.

Curiosamente, infatti, un individuo così strano come il nostro ha sempre dato il meglio nelle competizioni a squadre, divenendo così la punta di diamante del gruppo, ma mantenendo comunque la sua maschera di “bad guy” che faceva impazzire compagni,avversari e pubblico. Più di una volta John ebbe modo di scontrarsi con il proprio staff o i piani alti della federazione, ma alla fine si trovò sempre il modo di convivere, poichè bisogna riconoscere che la società ha bisogno del deviante, come il deviante ha bisogno della società. Il comportamento deviante viene in linea di massima tollerato, fin quando non porta all’esasperazione il gruppo che reagisce ammonendo o addirittura espellendo il soggetto: ecco allora che egli si trova costretto a cercarsi un altro ambiente, magari più consono al suo modo di essere, oppure a fare ammenda e ritornare al suo gruppo originario. La seconda opzione, ovvero quella perseguita più spesso, prevede che il “convertito” venga premiato con attenzioni e gratificazioni superiori alla norma, da una parte per dimostrargli la completa restituzione della stima e dell’attaccamento, dall’altra per utilizzarlo come esempio per gli altri membri del gruppo o per coloro eventualmente interessati a far parte di esso.

C’è chi ritiene che questa tendenza sia eticamente ingiusta poichè tende a penalizzare la costanza del buon comportamento, il quale viene così pesantemente svalutato, ma questo, volente o nolente, fa parte del gioco sociale che stabilisce che ci si debba comportare bene per dovere e per buona educazione, di conseguenza i sacrifici che a volte si devono fare per stare in un gruppo vengono dati per scontati e assolutamente non premiati.

Dopo che John si ritirò, era il 1992, decise di prendersi qualche anno di pausa da quel mondo in cui aveva investito gran parte della sua vita, ma al quale fece inevitabilmente ritorno, venendo nominato capitano della squadra statunitense di Coppa Davis e trovandosi rocambolescamente a gestire un gruppo di scapestrati come Andre Agassi o il mai domo Jim Courier.

Successivamente venne scelto come commentatore sportivo da importanti reti televisive come ESPN o BBC, dimostrandosi perfettamente a proprio agio anche dietro a un microfono, anche se gli fu chiaramente chiesto di moderare le sue famose uscite, che tuttavia ripropone ancora sporadicamente mandando in visibilio le folle, come quando nel 2009 abbandonò la postazione per concedersi qualche scambio con il serbo Novak Djokovic nella rovente atmosfera del campo centrale di Flushing Meadows.

John racconta spesso di essere stato definito da uno psicologo “un isterico estroverso”, un termine che a mio avviso lo descrive splendidamente dal momento che mette in luce il suo lato oscuro, fatto di urla e azioni deprecabili, ma anche le sue doti come il coraggio, la voglia di vincere e soprattutto quell’impareggiabile sfrontatezza nei confronti delle difficoltà e del giudizio altrui. E’ inutile negare che ci siano parti di lui che vanno stigmatizzate e condannate, ma c’è anche tantissimo da salvare ed erigere ad esempio per chi ama questo sport e vuole fare strada nella vita; bisogna andare avanti, sempre avanti, non curandosi dei bastoni che il mondo tenterà sempre di mettere tra le nostre ruote, andando a prenderci i nostri punti a rete, mettendoci la faccia, proprio come faceva quel ragazzino con la testa piena di riccioli, evviva John McEnroe.

 

Jacopo Bertone

 

Bibliografia

“Non puoi dire sul serio”,John McEnroe/James Kaplan, 2002, Piemme

“Psicologia Sociale Olistica”, Giuseppe Brondino, 2012, Scaravaglio Editori

 

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